Psicoterapia e spiritualità: la terza generazione della psicoterapia cognitivista

Psicoterapia e spiritualità: la terza generazione della psicoterapia cognitivista

di Clara Emanuela Curtotti

La premessa di questo breve articolo nasce da una personale riflessione: sempre più frequentemente avviene, nel contesto della domanda alla psicoterapia, di raccogliere un bisogno esistenziale e spirituale più ampio in senso lato di ciò che lo specifico sintomo o la crisi in cui si è coinvolti,  sembrano portare.

Si chiede aiuto per un attacco di panico o una serie di quesiti, per una relazione di dipendenza affettiva di difficile soluzione, per un grave disturbo dell’umore o del comportamento legato all’incapacità avvertita di gestire emozioni come la paura, l’odio, la rabbia o la tristezza, oppure per il rimuginio costante legato al ripresentarsi di una idea fissa o più di esse, ma ciò che accade realmente è che la difficoltà critica conduce, quasi per mano, sulla soglia di quella località della geografia interiore in cui altre domande si impongono alla consapevolezza con il loro carico di angoscia inquietante: “Perché io,  perché proprio a me,  perché ora…..ed infine qual è il senso di tutto questo?

A mio avviso l’ ”Epoca delle passioni tristi”, per dirla alla Benasayag e Schmit, non è mai stata così attuale.

Tali autori infatti hanno avuto il merito di sottolineare con efficacia, sulla base delle loro osservazioni cliniche effettuate in Francia, tale dato: le persone oggi portano un bisogno legato a sofferenze che non hanno una vera e propria origine psicologica, o meglio non solo, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà.

A loro avviso, tutto ciò è incominciato con la morte di Dio e francamente, mi sento molto vicina a questa lettura.

Questo non solo per le mie personalissime convinzioni o dei miei altrettanto discutibili riferimenti valoriali, ma anche come risultato del confronto costante con chi come me svolge la stessa attività professionale.
Mi sembra infatti doveroso prendere atto di quanto interesse ci sia e quanto desiderio per una vera dimensione spirituale nel percorso esistenziale delle persone impegnate in un percorso di cura.

Tale interesse, poi, è formulato in maniera sempre più esplicita e cosciente.

D’altra parte lo stesso Jung aveva affermato: «Sono stato contattato da clienti provenienti da tutte le parti del mondo e, senza eccezione, non ne ho trovato uno che non avesse un problema fondato sul suo atteggiamento personale nei confronti della religione, del rapporto con il trascendente e con la dimensione del trascendente. Tutti si ammalano per aver perso questo collegamento che in passato era assicurato dalla vita delle diverse religioni».

Si può senza dubbio discutere sul significato che ognuno attribuisce al termine “spiritualità”, ma il fatto indubitabile è che anche gli ambiti della psicoterapia si stanno sempre più rendendo conto dell’importanza di questa dimensione, forse troppo presto messa da parte in nome della scientificità dell’uomo moderno.

Basta poi guardare quanto sia fiorente, non solo negli States ma in tutto il mondo, il mercato psicoterapeutico dell’editoria new-age e cogliere il bisogno di spiritualità che si tocca quasi con mano in ogni contesto delle umane attività.

Sullo sfondo di tale scenario dunque, a mio avviso, va contestualizzato l’affermarsi dell’”Acceptance and Commitment Therapy” (ACT), che in italiano può essere resa con “Psicoterapia basata sull’accettazione e l’impegno“, che viene collocata all’interno di quella che è indicata come la terza generazione (“third wave“) della terapia cognitiva e comportamentale.

Infatti se la prima fase della psicoterapia, in quest’ambito degli approcci teorico-clinici, fu caratterizzata dal comportamentismo e la seconda dal cognitivismo, la terza fase è un movimento che s’incardina su interventi che includono, in maniera differente, l’utilizzo dell’accettazione incondizionata, della meditazione, della relazione, dei valori e infine della spiritualità.

Più che focalizzarsi sulla riduzione dei sintomi, la finalità primaria della ACT consiste nell’aiutare i clienti ad accettare i propri pensieri ed emozioni e vivere in maniera coerente con i propri valori. Così, ad esempio, quelli che sono chiamati i sintomi dell’ansia non sono considerati come elementi problematici. La fonte principale della sofferenza è infatti il tentativo caparbio di controllare e gestire i sintomi.

Dunque si deve riconoscere come la filosofia soggiacente alla ACT, e in generale alle pratiche legate alla meditazione, mostri una modalità di considerare il dolore e il disagio opposta alla visione tradizionale occidentale, legata al controllo e alla riduzione dei sintomi.

In tale prospettiva, l’ACT è talora indicata più come una visione del mondo, una filosofia, una weltanschaung , che come una serie di tecniche terapeutiche.

In conclusione, la spiritualità rientra oggi, a giusta ragione, nello scenario della pratica clinica, anche cognitivista, e va intesa non solo come recupero di quella legittima esigenza dell’uomo di riconnettersi a se stesso, ma anche come bisogno ineludibile di ricollocare il dolore, la morte e Dio in quell’ orizzonte umano di senso credibile per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, giungono nella stanza di uno psicoterapeuta.

Clara Emanuela Curtotti

 

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